LA RAGAZZA DEL CONVENIENCE STORE di Murata Sayaka

PRIMA ANCORA CHE UMANA, COMMESSA DEL KONBINI
La società moderna finge di mettere al centro del mondo l’individuo, ma in realtà tutti quelli che non si adeguano alle norme sono scartati, neutralizzati e messi al bando, senza alcuna pietà!
Esiste un unico posto in cui la trentaseienne Keiko Furukura si è mai sentita normale: il minimarket giapponese sempre aperto dove, da ben diciotto anni, lavora part-time con contratto a tempo determinato.
Etichettata come bambina problematica in seguito a «colpi di testa» – che rispondono, però, per lei a logiche precise – confusa nelle sue coordinate d’interazione con il mondo, s’impone di reprime la propria indole, senza però per questo riuscire a sfuggire allo stigma di strana.
L’assunzione durante il primo anno di università in un konbini determina, tuttavia, ciò che Keiko stessa definisce una «rinascita»: l’applicazione alla lettera delle istruzioni di un manuale e delle indicazioni del training le cuciono addosso i panni della commessa perfetta. Finalmente qualcuno le insegna «come rapportar[si] con gli altri […] per apparire “normale”» e «per la prima volta nella vita, assapor[a] la sensazione di aver trovato il [proprio] posto nel mondo», come se fosse nata solo allora. Del resto, al Konbini poco importa chi sei: la divisa uniforma tutti.
Imitare, copiare, assimilare sono per Keiko le parole d’ordine per sentirsi un «“normale” componente degli ingranaggi della società». Al di fuori del konbini, continuerà, invece, a non avere idea di come funzionare come tale.
Il primo contatto con l’universo konbini – quasi personaggio di per sé e in cui la protagonista «nutr[e] una fiducia cieca e assoluta» – è uditivo: veniamo, infatti, subito calati nella miriade di suoni e rumori che lo anima, la sua «sinfonia», la sua «musica», in accordo alla quale il corpo di Keiko agisce in automatico e che risuonerà per tutto il corso del libro, richiamata al bisogno. Fino a suggellare il finale.
L’intera vita di Keiko è governata dal konbini, come a esso appartenesse. E a esso Keiko si consacra con piena devozione. Persino quando è fisicamente distante, Keiko è in perenne connessione con il konbini. Keiko è, in poche parole, una «cellula dell’organismo konbini», quasi «parte integrante degli arredi del negozio».
Se, però, per Keiko il konbini è sollievo e rifugio, «il luogo che le è più caro nella vita», agli occhi degli altri – genitori, sorella, amiche, estranei – la sua situazione suscita contrarietà. Essendo, normalmente, quello nei convenience store, un lavoretto temporaneo, Keiko è costretta a rifilare scuse a chi la interroga sul perché non cerchi «un impiego degno di questo nome».
Vi si aggiunga il suo stato di donna sola, non sposata e senza figli: una somma di fattori che fa spalancare occhi, bocca e narici riguardo alla sua posizione, reputata ben lontana da «uno status sociale sufficientemente solido». Parole come «strana», «extraterrestre», «bestia rara» sono associate a quelle come lei. E termini come «curarsi» e «guarire» ricorrono più volte.
La condizione di Keiko è espressa, brutalmente, e a più riprese, per bocca di Shiraha, altro personaggio considerato un perdente, un fallito, una piaga. Shiraha è uno strenuo sostenitore dell’idea che «il prototipo della persona normale» non sia cambiato rispetto a migliaia di anni fa; e ricorre a espressioni come «fardello», «rifiuto umano», «nullità», «vecchia carcassa», «peso», e varie altre per spiegare la visione della società riguardo a donne come Keiko.
Non che gli uomini siano risparmiati: sono anche loro «sotto pressione […], obbligati a cercar[s]i un buon lavoro, a guadagnare il più possibile, a sposar[s]i e mettere su famiglia». E chi non si omologa e non è utile alla comunità è costantemente giudicato, bandito e costretto a subire ingerenze altrui.
Keiko e Shiraha provano ad allearsi, nel tentativo di ridurre almeno in parte il loro tasso di anormalità. Il passo successivo richiederebbe di lasciare il konbini. Ma, nel momento in cui la vita di Kiko cessa di appartenere a quel «microcosmo lucente», perde ogni «riferimento», ogni «bussola», ogni «guida».
Fino all’istante dell’epifania, in cui Keiko comprende irrevocabilmente, fino in fondo, la propria essenza e il proprio destino, e «la [sua] vita acquisisce per la prima volta un senso compiuto». In un finale che mi ha riportato alla mente la frase checoviana cara a Raymond Carver: «… e all’improvviso tutto gli fu chiaro».
Bestseller giapponese vincitore nel 2016 del premio Akutagawa, in parte autobiografico, La ragazza del convenience store è un romanzo incentrato sull’inveterata opposizione normalità/anormalità; su condizionamenti della società, conformismo, omologazione. Un romanzo che, non soltanto in riferimento al Giappone, solleva una riflessione su stereotipi, pressioni e convenzioni sociali, aspettative altrui; e ancora, peso dei giudizi, culto della famiglia e del lavoro.
Un libro che spinge a domandarsi se, in un mondo che «non tollera le anomalie», i nostri desideri, le nostre credenze e aspirazioni, siano davvero nostri, o appartengano al pensiero dominante e ci siano stati meramente impiantati. Se non facciamo altro che assorbire modelli e schemi esterni, «indottrinat[i]» come siamo fin dalla nascita «con i principi dell’ordine costituito immaginario», come lo definisce Yuval Noah Harari in Sapiens. Da animali a dèi. Qualunque sia la nostra nazionalità.
Spostandomi d’epoca e luogo, mi è risultato istantaneo collegare la storia di Keiko all’«undicesimo comandamento» della scrittrice australiana Amy Witting: «non essere diversa».
Pluripremiata e promettente, Murata Sayaka si è rivelata un’autrice di acume, da seguire.
La traduzione del testo è di Gianluca Coci.
TITOLO: La ragazza del convenience store
AUTORE: Murata Sayaka
EDITORE: Edizioni e/o
COLLANA: Dal Mondo
ANNO: 2018
PAGINE: 168
TRADUZIONE: Gianluca Coci